In un quadro politico immerso nella terza ondata pandemica e in cui permangono e si accentuano le medesime criticità del Conte-bis, le priorità del paese rischiano di scomparire dall’agenda politica. Infatti, mentre il dibattito pubblico è impregnato di buone intenzioni, l’azione del Governo Draghi sembra andare in senso contrario, tanto nella costruzione del PNRR quanto nella gestione ordinaria dei provvedimenti in materia di saperi e conoscenza.

Nel mondo dell’università, in particolare, suscita una certa attesa la seduta della VI Commissione Cultura della Camera martedì 14 aprile su “Disposizioni in materia di reclutamento e stato giuridico dei ricercatori universitari e degli enti di ricerca, nonché di dottorato e assegni di ricerca (esame C. 208 Fregolent, C. 783 Torto, C. 1382 Melicchio, C. 1608 Melicchio, C. 2218 Piccoli Nardelli e C. 2294 Angiola- Rel. Melicchio)”.

C’è attesa cioè per un disegno di legge, su cui sia il ministro precedente che quello attuale hanno annunciato più volte la propria attenzione, che dovrebbe andare a rivedere la legge 240 del 2010 (la cosiddetta legge Gelmini) per ciò che attiene le posizioni e gli inquadramenti di tutto il pre-ruolo universitario. Un DDL, cioè, che interviene su un settore in cui nell’ultimo decennio si è gonfiata a dismisura una bolla di precariato di lunga durata, segnata da instabilità, incertezza ed infine espulsione dal sistema per decine di migliaia di giovani e oramai non più giovani ricercatori.

L’iter, iniziato con le due proposte di legge a firma Torto e Melicchio nel febbraio 2019, ha visto in due anni uno stop and go di incontri, tavoli tecnici e ascolti in seno alla Commissione, la quale ancora tarda a produrre un testo unificato, sebbene una bozza circoli da giugno 2020 e a fine anno ne sia stata definita una in sede di “Commissione Ristretta”, ovvero un tavolo tecnico con rappresentanti delle forze politiche di maggioranza del Governo precedente.

Una prima nota di metodo che intendiamo sottolineare con forza è relativa all’assenza di volontà politica nell’aprire una discussione ampia e partecipata con la comunità degli atenei e soprattutto con gli oltre 60.000 precari che in essi lavorano, preferendo invece relegare il confronto a pochissime occasioni di incontro e a sporadiche iniziative di condivisione con le rappresentanze sociali e sindacali.

Negli ultimi mesi CUN e CRUI hanno elaborato delle “osservazioni” integrative alla bozza di dicembre. In particolare, il CUN ha definito un proprio contributo, reso pubblico da diversi mesi. La CRUI sta forse definendo un proprio documento in queste settimane. I presidenti dei due organismi avrebbero condiviso negli scorsi mesi alcune linee comuni, che però non sono mai emerse pubblicamente. Mentre ci auguriamo che nel dibattito politico sia tenuta in debita considerazione l’elaborazione del massimo organo nazionale di rappresentanza dell’Università (il CUN), riteniamo  comunque necessario che qualunque proposta diventi patrimonio pubblico e occasione di ampio confronto con l’insieme della comunità universitaria (a partire dalla sua molteplice composizione, territoriale e scientifica), oltre che dell’insieme della collettività attraverso un ampio dibattito politico, prima di ogni accelerazione nell’iter parlamentare del DDL.

A leggere la bozza di Disegno di Legge che circola, come a sentire le ipotesi e i discorsi che si accavallano informalmente (e riservatamente) in questi mesi, non possiamo però, come organizzazione sindacale, che esprimere grande preoccupazione.

In primo luogo, si ipotizza la conferma di forme di lavoro estremamente precarie, non solo nella forma di borse post-laurea (per un tempo più o meno limitato a seconda delle ipotesi), ma configurando contratti individuali anche di diversi anni senza introdurre nessuna reale garanzia nelle condizioni, nei rapporti di lavoro, nelle prospettive di reclutamento. Mentre riteniamo positiva l’eliminazione della figura del ricercatore a tempo determinato di tipo A, rimangono infatti borse di ricerca [in alcune ipotesi anche per lungo tempo] e una figura paragonabile all’attuale assegno di ricerca, pur parificata negli inquadramenti e nelle condizioni “professionali e ambientali” ai lavoratori affini negli EPR [con un interessante accostamento alle attuali condizioni previste nella sezione Ricerca del CCNL di settore]. Il mancato superamento di queste forme contrattuali [o la loro mancata delimitazione entro limiti molto ristretti e precisi], pur riducendo la sommatoria dei rapporti di lavoro complessivi, non garantisce infatti un pre-ruolo in tempi definiti.

Inoltre, anche aumentando la retribuzione, permane il trattamento contributivo in gestione separata, l’assenza di una copertura totale a prestazioni fondamentali, il continuo ricatto apicale in ordine a differimenti e sospensioni della decorrenza dei contratti nonché a possibili rinnovi. Al contrario, sono invece necessari sia una piena ed effettiva configurazione di questi contratti come lavoro subordinato a tempo determinato, sia un inquadramento nazionale del rapporto di lavoro, finalmente sganciato dalle discrezionalità e dagli arbitri di ogni specifica sede universitaria.

In secondo luogo, si riduce il ricercatore a tempo determinato ad un’unica figura, in tenure track. Questo è in sé positivo ed è una nostra proposta storica. Rispetto al dibattito e le ipotesi che circolano in questi mesi, è per noi però altrettanto importante precisare tre elementi fondamentali:

  1. la sua durata deve esser limitata (va cancellata ogni eventuale ipotesi di moltiplicazione dei sei anni previsti attraverso una reiterazione in sedi diverse);
  2. il suo inquadramento deve esser nazionale (eliminando ogni ipotesi di definizione locale dei criteri e degli obiettivi da raggiungere per la stabilizzazione come professori associati, sulla base di Regolamenti o bandi di Ateneo);
  3. i requisiti per la stabilizzazione devono essere predeterminati e omogenei, evitando processi selettivi che negherebbero il senso stesso di tenure track.

In questo quadro, ci sembra rilevante anche precisare che l’assunzione di compiti didattici, da escludersi esplicitamente per le altre forme di precariato della ricerca (dottorandi e borsisti), deve esser progressiva e limitata (come massimo, negli ultimi anni, di 90 ore annue), permettendo quindi a questo personale di concentrare il proprio impegno sull’attività di ricerca.

In terzo luogo, la bozza riconferma il criterio dell’Abilitazione Scientifica Nazionale come requisito essenziale per la stabilizzazione a professore associato. Nel DDL e nelle ipotesi che circolano in questi mesi, cioè, non sembra esserci nessuna considerazione per i limiti ripetutamente sottolineati sull’attuale ASN, a partire dai parametri e dai criteri bibliometrici che la contraddistinguono, come delle richieste di una profonda revisione dell’abilitazione che diverse voci della comunità universitaria hanno avanzato (noi compresi).

Infine, particolare rilievo assume il passaggio sulla cosiddetta “mobilità”: si introduce l’impossibilità di partecipare ad un concorso di un ateneo se all’interno dello stesso si è stati titolari di contratto, in dottorato o semplicemente iscritti all’università negli ultimi 5 anni. Ciò al fine, si dice, di incentivare i percorsi di carriera in atenei diversi da quello di provenienza e dunque (ipoteticamente) limitare anche i casi di semplice cooptazione di scuole o filiere locali. A corredo viene infatti introdotta una commissione giudicatrice costituita da 2 interni e 3 esterni, con obbligo di perfezionamento del contratto entro 90 giorni dal termine dei lavori della Commissione e con impossibilità di impiego a tempo parziale. Mentre riteniamo sicuramente positiva la reintroduzione di procedure di chiamata definite nazionalmente che superino l’attuale disarticolazione tra diversi Regolamenti di Ateneo, come riteniamo utile incentivare la mobilità con politiche attive di sostegno sia per le strutture sia per il personale coinvolto, ci riserviamo una valutazione più approfondita su questi eventuali vincoli, che potrebbero creare più strozzature che vantaggi. In questo quadro, segnaliamo che le ipotesi e le proposte di chiamata diretta (che si rincorrono proprio in questi mesi nel dibattito accademico come in quello pubblico) andrebbero esattamente nella direzione opposta, favorendo ed istituzionalizzando (cioè incrementando e cristallizzando) le derive di un sistema di cooptazione non contrastato e limitato da procedure concorsuali strettamente regolate.

È ormai da tre anni che la FLC CGIL è impegnata quotidianamente negli atenei italiani e a livello nazionale con una specifica vertenza dedicata al contrasto del lavoro precario negli atenei italiani attraverso una piattaforma di proposte dal titolo “Perché Noi No? Ricercatori Determinati”. A meno di stravolgimenti dell’ultima ora (anche sulla base di ipotesi e proposte circolate in questi mesi), questo DDL sembra comunque mosso da alcune buone intenzioni, a partire dalla semplificazione del percorso preruolo e dal miglioramento di talune condizioni nei rapporti di lavoro rispetto all’esistente. Nonostante ciò, questi due anni rischiano di partorire un topolino e soprattutto introdurre norme vessatorie nei confronti dei precari dell’università che in questi anni hanno sorretto un pezzo significativo della didattica e della ricerca in questo Paese, anche nella pandemia.

Infatti, risulta evidente che il grande assente della proposta di legge (come della discussione di questi mesi) è un percorso transitorio per le decine di migliaia di precari che si sono accumulati in questi anni, molti di loro oramai non più giovani e senza particolari prospettive occupazionali. Nelle bozze che sono circolate del DDL, si stabilisce infine infatti semplicemente il termine di un anno per gli atenei di poter stipulare contratti RtdA e RtdB all’atto dell’approvazione della proposta di legge, fatte salve le conversioni dai concorsi in essere degli ultimi piani straordinari e dei passaggi a professore di II Fascia. Se è importante abrogare le figure e i percorsi che hanno permesso in questi anni l’espansione di un anomalo precariato strutturale (come gli assegni di ricerca), non possiamo pensare di abrogare le persone (gli assegnisti e ricercatori a t.d.). Lo sviluppo di un diverso e più equilibrato inquadramento delle attività di didattica e di ricerca deve allora prevedere una fase transitoria, per poter attivare percorsi di stabilizzazione rivolti alle decine di migliaia di attuali precari dell’università: serve un piano straordinario di almeno ventimila posizioni, per recuperare i tagli indiscriminati dell’ultimi decennio e dare impulso ad un sistema più che mai centrale per lo sviluppo del Paese. Un periodo transitorio in cui per RtdA, assegnisti di ricerca e le diverse forme di precariato siano previsti percorsi preferenziali di stabilizzazione, in grado di riconoscere e valorizzare il lavoro svolto in questi anni (nella ricerca e nella didattica), anche in progetti europei. Norme transitorie che possano garantire anche a chi ha programmato e costruito le proprie carriere con le attuali normative su mobilità e vincoli temporali, di non esser sostanzialmente espulsi dal sistema. Senza questi correttivi non c’è una riforma del preruolo all’altezza delle risposte che meritano le criticità e i problemi emersi in questi ultimi dieci anni.

Nel quadro del preruolo, infine, riteniamo necessario che questo DDL si faccia carico anche di un’ulteriore capacità di revisione della Legge 240 del 2010, prospettando la necessità di ulteriori figure che possano poi trovare una regolazione nel quadro della contrattazione nazionale. Nello specifico, riteniamo necessario abrogare dalla legge 240 l’attuale figura prevista dall’art 24 bis (tecnologo a tempo determinato, con un contratto definito secondo i Regolamenti di Ateneo), sostituendolo con una figura a tempo indeterminato, riportata nell’ambito del CCNL del settore, così come avviene per le stesse figure negli Enti di Ricerca Pubblici. In questo quadro, si ritiene anche opportuna una revisione dell’articolo 23 della stessa legge (Contratti per attività di insegnamento), da una parte prevedendo limiti più stringenti nell’impiego di professionisti nelle attività di insegnamento, dall’altro garantendo ad eventuali docenti a contratto garanzie più stringenti nel loro rapporto di lavoro, anche nell’ambito del CCNL di settore.

In questo quadro complessivo, la FLC ritiene quindi fondamentale procedere evitando l’ennesima riforma a costo zero, scaricando cioè sostanzialmente gli effetti di queste revisioni di sistema sull’attuale mondo del precariato, lavoratori e lavoratrici che hanno già pagato un decennio perduto di investimenti sull’università e la ricerca. Per questo, riteniamo fondamentale accompagnare questa modifica del preruolo immettendo a sistema un finanziamento ulteriore di almeno 1,5 mld di euro, per sostenere un reale piano straordinario di stabilizzazione ed espansione dell’università, oltre che in parallelo una revisione profonda dei meccanismi abilitativi (ridiscutendo a fondo l’impianto della ASN).

La FLC CGIL è quindi in prima linea come sempre a garantire che tale percorso viva nelle prossime settimane negli atenei e tra i precari, e chiede al Parlamento e al Governo di aprire le porte ad una discussione tra “addetti ai lavori” senza il protagonismo di incarna la condizione di precarietà ogni giorno.