RICERCATORI DETERMINATI: PERCHÉ NOI NO?

  • I ricercatori universitari invecchiano nel precariato, mentre in altri comparti della pubblica amministrazione i precari vengono stabilizzati. Perché noi no?
  • L’Italia è capofila nei tagli all’Università e alla ricerca, mentre in altri paesi europei si investe su questi settori. Perché noi no? 
  • Nei nostri atenei sperimentiamo precariato selvaggio e lavoro gratuito, mentre i nostri colleghi europei, che entrano in ruolo tra i 30 e i 35 anni, nel percorso precedente hanno diritti e retribuzioni adeguate. Perché noi no?

 

Dopo la grande crisi del 2008/2009 l’Italia ha consistentemente ridotto le risorse per scuola, università e ricerca, in controtendenza rispetto a tutti i paesi OCSE. Negli ultimi 10 anni si è ridimensionata strutturalmente la formazione superiore nel nostro paese: tagli al FFO (oltre un miliardo di euro dal 2008), blocco del turn-over (circa 15 mila docenti di ruolo in meno su 60.000, in particolare ordinari, con una riduzione percentuale che si aggira intorno al 25%), contrazione dei fondi per la ricerca (PRIN, FIRB e FIRST a singhiozzo, spesso ridimensionati rispetto gli anni precedenti), riduzione delle sedi e dei corsi di laurea (circa il 20% in meno). Tale livello di definanziamento, aggravato da un’iniqua ripartizione delle risorse dovuta ai meccanismi di attribuzione premiale, ha messo in crisi la tenuta del sistema nazionale universitario, accrescendo i divari e penalizzando la parte più debole del Paese. Conseguentemente, in risposta alla riduzione verticale del personale strutturati, la precarizzazione del lavoro di ricerca e di didattica è arrivata a toccare soglie ben oltre quelle raggiunte dagli altri settori pubblici, sia in termini di ampiezza che di stagnazione del fenomeno. Ai circa 45.000 strutturati, si affiancano 3.300 ricercatori di tipo A e quasi 2.500 ricercatori di tipo B e circa 13.000 assegnisti di ricerca, necessari per garantire in tutti gli Atenei l’ordinario e fisiologico lavoro didattico, di ricerca e in alcuni contesti persino istituzionale (dalla semplice partecipazione ai requisiti minimi per l’attivazione dei corsi sino all’attivo impegno in organi, commissioni ed attività dell’Ateneo).

In particolare l’assegno di ricerca -un contratto para-subordinato, rinnovabile fino a 6 anni, con scarsissime tutele, si è rivelato essere la chiave di volta dello sfruttamento del lavoro precario nell’Università. Gli atenei non hanno esitato ad abusarne, evitando di bandire posti da RTD, più costosi e maggiormente tutelati dal punto di vista contrattuale. L’universo dei precari dell’università è inoltre composto da altre figure che svolgono attività di ricerca con contratti di collaborazione, borse di ricerca (finanziate anche da soggetti esterni) o, spesso, gratuitamente. Con tutte queste figure si intrecciano coloro che svolgono attività di docenza a contratto (senza essere strutturati), circa 19.000 nelle università statali. Ciò è inaccettabile per il presente e il futuro dell’Università. E’ a rischio, ormai da anni, la tenuta del sistema universitario italiano e quindi la sua funzione. Ne paga un prezzo altissimo tutto il paese, per primi coloro che sono chiamati a tappare i buchi di un sistema iniquo: i ricercatori precari che svolgono attività di ricerca e didattica essenziali al funzionamento delle Università e devono avere prospettive certe di stabilità.

Al danno si è aggiunta la beffa che in questo caso ha preso le sembianze di una singolare discriminazione dei precari dell’università. Sugli altri comparti della pubblica amministrazione intervenuta di recente la cosiddetta Legge Madia che consentirà, tramite un meccanismo di cofinanziamento, la stabilizzazione di un consistente numero di precari. Risulta a questo proposito paradossale la discriminazione dei ricercatori precari dell’università, figure analoghe, se non addirittura identiche, a quelle che operano negli enti pubblici di ricerca, ma ai quali non si offre nessuna prospettiva analoga di stabilizzazione o reclutamento.

E’ dunque urgente, a fronte della lunga fase di contrazione che abbiamo vissuto, che ha messo in discussione le condizioni di lavoro e di vita di un’intera generazione di ricercatori, un piano straordinario di stabilizzazione e reclutamento, in grado di intervenire sulla piaga del precariato, insieme a una riforma del preruolo universitario che garantisca condizioni e prospettive di lavoro adeguate.

Tutto questo deve incardinarsi su un rilancio del sistema universitario pubblico, con una ripresa stabile dei finanziamenti e un intervento normativo per superare le tante contraddizioni prodotte dalla Legge 240/2010 e dai successivi interventi legislativi, per superare la logica delle eccellenze e garantire qualità della didattica, sviluppo della ricerca e diritto allo studio in tutte le sedi del paese.

 

In questa ottica, crediamo che siano necessari

 

  1. STABILITA’ PER GLI ATTUALI PRECARI DELL’UNIVERSITA’. L’università non può procedere a forza di interventi straordinari. Tuttavia è improrogabile sanare l’enorme bacino di precariato (con anni di anzianità di ricerca alle spalle) che si è determinato in più di un decennio per rispondere alle esigenze del sistema universitario drammaticamente sotto organico e per offrire una prospettiva alle tante e ai tanti che da anni svolgono attività di ricerca e didattica nei nostri atenei. Serve dunque un intervento straordinario di reclutamento rivolto a chi ha tenuto in piedi in questi anni le nostre università, in analogia con quanto previsto per gli Enti Pubblici di Ricerca.

 

  1. RECLUTAMENTO ORDINATO E CICLICO. Oltre a sanare l’attuale situazione di precarietà bisogna impedire che si ricreino in futuro le stesse dinamiche. Chi intraprende il cammino verso la docenza universitaria deve avere reali prospettive di reclutamento. Per questo va attivato fin da subito, parallelamente al percorso di stabilizzazione dei precari storici una programmazione del reclutamento ordinata e stabile, non inferiore al numero dei pensionamenti previsti, da attuarsi anche attraverso la piena separazione, normativa e finanziaria, tra reclutamento e progressione di carriera, insieme all’abrogazione del meccanismo dei punti organico.

 

  1. RIFORMA DEL PRERUOLO. Per garantire tale reclutamento ordinario e stabile, garantire una condizione contrattuale adeguata in termini di retribuzione, diritti e tutele e il pieno riconoscimento del suo ruolo di ricercatore sancito dalla carta europea dei ricercatori è necessario intervenire normativamente per riformare il preruolo. Occorre creare un’unica figura di ricercatore a tempo determinato con contratto di lavoro subordinato che sostituisca le attuali figura previste dalla legge 240/2010. Tale pre-ruolo unico deve ridurre drasticamente la durata complessiva dei contratti postdoc previsti dalla legge 240/10 (oggi 12), arrivando almeno a dimezzarla.

 

  1. FINANZIAMENTI Ciò significa che al sistema universitario deve essere restituito quanto sottratto con i tagli dell’ultimo decennio, ma anche che, più in generale, devono essere previsti livelli di finanziamento ben diversi da quelli attuali e in linea con gli standard europei. Si tratta di attivare uno stanziamento straordinario per il reclutamento su citato e per l’attivazione di nuove posizioni preruolo (in un preruolo riformato) ripensando complessivamente il peso dell’Università e ricerca pubbliche nel bilancio dello stato.

La proposta qui presentata si muove su questi pilastri, fra loro inseparabili: piano di stabilizzazioni per i precari storici, ripresa di un un reclutamento ordinato e stabile, riforma del pre-ruolo universitario, ovviamente nel quadro di una ripresa dei finanziamenti.

 

 

  1. STABILITA’ PER GLI ATTUALI PRECARI DELL’UNIVERSITA’

L’intervento straordinario di reclutamento orientato alla stabilizzazione degli attuali precari dell’università è necessario per traghettare il sistema verso un nuovo, più efficiente e giusto, modello di organizzazione del pre-ruolo e del ruolo universitari e offrire risposte alle giuste aspettative di carriera degli studiosi abilitati e che si abiliteranno.

Ricercatori a tempo determinato di tipo a

In analogia con quanto previsto per i ricercatori degli Enti Pubblici di ricerca gli attuali ricercatori a tempo determinato di tipo a1 con almeno tre anni di contratto alle spalle (maturati anche con assegno di ricerca, borse di ricerca o docenze a contratto o altre forme contrattuali flessibili, negli ultimi 8 anni) già abilitati o che conseguono l’abilitazione nel triennio devono poter convertire la loro posizione in quella di ricercatore a tempo determinato tipo b articolo 24 comma 3 attraverso una procedura riservata.

Assegnisti di ricerca

Per gli attuali assegnisti di ricerca2 con almeno tre anni di attività di ricerca alle spalle (maturati anche con borse di ricerca o docenze a contratto o altre forme contrattuali flessibili negli ultimi otto anni) devono essere previste:

  • procedure riservate per gli assegnisti abilitati ai fini del reclutamento nella posizione di ricercatore a tempo determinato articolo 24 comma 3 tipo b;
  • procedure riservate, al fine di acquisire l’abilitazione scientifica nazionale e poi poter avere accesso al ruolo, riservate agli assegnisti triennali in scadenza per il reclutamento nella posizione di ricercatore unico post doc (vedi paragrafo 3), o esclusivamente in via transitoria, a tempo determinato articolo 24 comma 3 tipo a.

 

Chiediamo sia una modifica legislativa che renda possibile per gli Atenei italiani attivare, sulla base dei propri fondi e della propria programmazione, tali procedure, sia uno specifico intervento economico per coprirne i costi.

 

  • In analogia con quanto previsto dal D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75 ci si riferisce a coloro che risultino in servizio successivamente alla data di entrata in vigore della legge n. 124 del 2015 presso l’amministrazione, e che abbiano maturato, al 31 dicembre 2017, alle dipendenze dell’amministrazione in questione almeno tre anni di servizio, anche non continuativi, negli ultimi otto anni.

 

  • In analogia con quanto previsto dal D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75 ci si riferisce a coloro che risultino titolari, successivamente alla data di entrata in vigore della legge n. 124 del 2015, di un contratto di lavoro flessibile presso l’amministrazione che bandisce la procedura comparativa; abbiano maturato, alla data del 31 dicembre 2017, almeno tre anni di contratto, anche non continuativi, negli ultimi otto anni, presso l’amministrazione in questione.

Proroga straordinaria delle abilitazioni di almeno quattro anni.

La normativa prevede che le abilitazioni scientifiche (ASN) siano valide per un periodo massimo di 6 anni. La lunga fase di contrazione delle risorse ed il blocco del turn over ha però impedito a molti, per diversi anni, di poter concretamente far valere le abilitazioni ottenute. Per alcuni Atenei queste difficoltà perdureranno ancora per diversi anni, senza interventi strutturali di ri-finanziamento. Per questo, si chiede una proroga straordinaria di tutte le abilitazioni ottenute nel periodo 2012-2018 di almeno quattro anni, affinché queste condizioni non pesino ulteriormente su questa generazione di ricercatori.

Più in generale, tuttavia, si tratta di accendere un faro sui meccanismi dell’abilitazione scientifica nazionale (ASN) costruita su parametri quantitativi talvolta iniqui e spesso astratti dal concreto lavoro di ricerca, applicata con procedure oscure, farraginose e talvolta astruse. Il tutto nel quadro della progressiva affermazione dell’ANVUR, affermazione che ha sempre più assunto la funzione di vero centro direzionale dell’università italiana, imponendo parametri e obiettivi discutibili, che sono diventati determinanti per accedere a consistenti quote di finanziamento.

 

  1. PIANO DI RECLUTAMENTO ORDINATO E CICLICO.

Il piano straordinario orientato a stabilizzare gli attuali precari dell’università sopra descritto è necessario per recuperare la significativa perdita di docenti e ricercatori registrata in questi anni, oltre che per offrire doverosamente prospettive a tutti coloro che hanno tenuto in piedi i nostri atenei in anni di crisi. E’ orientata quindi, a ripristinare le condizioni minime di funzionamento dell’università. Contestualmente, tuttavia, è necessario garantire la ripresa di un reclutamento ordinato e stabile al 100% del turn over. Parallelamente, quindi, devono essere attivate nuove posizioni di RTD unico preruolo qui sotto descritto (in via transitoria RTDa e, successivamente, RTDb), nell’ottica di un reclutamento che preveda una programmazione degli ingressi in ruolo in base al fabbisogno degli atenei, comunque non inferiore al numero di pensionamenti. Per evitare il ricrearsi di sacche di precariato senza prospettiva l’attivazione di contratti preruolo a sistema deve essere congrua e rapportata alle previsioni di un reclutamento tale da ripristinare i livelli adeguati di personale strutturato per gli atenei. In questa ottica, lo stanziamento e distribuzione delle risorse dovrà prevedere un meccanismo di riequilibrio a livello territoriale e disciplinare, in modo da non accentuare le differenze oggi esistenti fra atenei e ambiti di ricerca. A regime, nel quadro della riforma del pre-ruolo qui proposta, si dovrà prevedere sostanzialmente il rapporto di 1:1 tra il reclutamento di rtd unico (vedi paragrafo 3) e pensionamento di un docente strutturato.

 

  1. RIFORMA DEL PRERUOLO

Oggi il pre-ruolo è una via crucis fatta di rinnovi di anno in anno di contratti precari, senza certezze, per una durata totale di 14 anni fra assegni, RTDa e RTDb, in cui – bene che vada – un “giovane” ricercatore può ambire a diventare associato intorno ai 40 anni. In realtà, con gli attuali livelli di reclutamento e tassi di abilitazione dell’ASN, stimiamo che solo il 6,5% degli attuali assegnisti potrà ambire a una posizione strutturata, mentre più del 93% sarà espulso dal sistema universitario, il 27% dei quali al termine di un contratto da RTDa.

È ora di dire basta e di promuovere una radicale riforma del pre-ruolo universitario che sottragga i giovani ricercatori dal ricatto dell’economia della promessa e garantisca loro condizioni di lavoro, di vita e prospettive adeguate.

 

Contratto RTD unico per il post-doc

In ragione delle criticità evidenziate, relative agli attuali contratti di assegno di ricerca, e con l’obiettivo di semplificare ed uniformare le forme di lavoro post-dottorale, proponiamo il superamento della forma contrattuale dell’assegno di ricerca (così come normato dall’art. 22 della L.240/2010) e del RTDa (di cui all’art.24, comma 3, lett. a), in favore di un unico contratto post-doc da Ricercatore a Tempo Determinato (RTD) con tenute track.

Tale contratto dovrebbe prevedere un rapporto di lavoro di tipo subordinato in modo da garantire piene tutele sociali e previdenziali, incluso l’accesso a forme di indennità ordinaria di disoccupazione alla scadenza del contratto. Tale contratto, di durata di 4 anni, dovrebbe essere articolato in due livelli: junior (primi due anni) prevalentemente con compiti di ricerca; senior (ultimi due anni) anche con compiti di didattica. Il passaggio fra livello junior e senior non comporta un concorso, ma una valutazione sull’attività svolta.

Come conseguenza del contratto unico, il trattamento economico spettante agli RTD dovrebbe essere equiparato, per i primi due anni, a quello di un attuale RTDa e per gli ultimi due a quello spettante all’attuale RTDb, ovvero fino al 30% in più.

Al fine di attivare uno strumento che consenta un adeguato apporto di lavoro di ricerca per i progetti attivati su fondi esterni e, contemporaneamente, di evitare ogni possibile abuso, si prevede una quota di posizioni RTD senza tenure track di durata di minimo 1 anno e massimo 2 anni, non rinnovabili. Tale quota non può in ogni caso superare ¼ delle posizioni di rtd unico con tenure track. Se così non fosse si rischierebbe di assistere ad una proliferazione abnorme di contratti non-tenured, più economici per gli atenei, a scapito di quelli tenured, replicando la dinamica a cui abbiamo assistito negli ultimi anni con gli assegni di ricerca.

RIFORMA DELLA DOCENZA A CONTRATTO

Contemporaneamente al post doc è necessario anche ripensare le docenze a contratto. La possibilità di usare tali figure anche per ricoprire le esigenze didattiche di base, come stabilito dal decreto Berlinguer del 1998, ha portato in questi ultimi 20 anni -in particolare a partire dal 2015 a seguito del dl 194/2015- sia a una loro crescita numerica esponenziale, sia a un crescente carico delle loro mansioni a fronte anche del restringimento del corpo dei docenti. Gran parte di chi svolge docenze a contratto non risponde alla figura del professionista esterno con alte competenze, bensì ingrossa le fila del precariato accademico, alternando o sommando tali contratti con assegni e borse di ricerca, ecc. Per questi ultimi, se responsabili di incarichi di insegnamento, è necessario prevedere contratti annuali TD, il cui compenso va calcolato sulla base del complessivo carico dell’attività didattica, carico complessivo che è già riconosciuto al personale strutturato (350 ore assegnate a professori, ricercatori TI e ricercatori TD). Una revisione del trattamento economico su base della complessiva attività didattica va estesa anche alle figure di cui al comma 1, art. 23 della l.n. 240/2010. Il rapporto tra ore di lezione frontale e attività didattica complessiva va calcolato gradualmente a decrescere nel loro rapporto. E’ necessario, inoltre, abolire la possibilità di stipulare docenze a titolo gratuito.

 

  1. FINANZIAMENTI

La priorità e l’urgenza degli interventi previsti deve in ogni caso esser ricondotta nel quadro generale di una vertenza per il rilancio del sistema universitario pubblico. Per questo è imprescindibile un ritorno almeno ai livelli di finanziamento degli altri paesi europei (nel complesso, almeno 1,5 miliardi di euro all’anno), in grado di garantire un adeguato rifinanziamento del fondo ordinario; il diritto all’accesso e allo studio universitario (tasse e servizi); il recupero del potere d’acquisto per il personale tecnico amministrativo (oltre che percorsi di sviluppo di carriera in linea con il comparto della conoscenza); il recupero dei diritti nelle progressioni di carriera dei docenti (scatti anzianità); nuove risorse per la ricerca, a partire da quella di base e non finalizzata.

In particolare le proposte di stabilizzazioni, reclutamento e riforma del preruolo possono sostenersi e giovare al sistema universitario solo se si accetta di mettere in campo precise misure per sostenerlo. In primo luogo è necessaria l’abolizione dei punti organico, la cui introduzione e ripartizione tra vari contratti ha fatto sì che la tipologia e la numerosità dei posti banditi non fosse collegata alle reali necessità di reclutamento, fornendo al contrario un pretesto per la proliferazione degli assegni di ricerca e lo scarsissimo reclutamento di RTD. Contemporaneamente è necessario separare i fondi destinati al reclutamento da quelli destinati alle progressioni di carriera, e garantire l’introduzione di un vincolo nella ripartizione di tali fondi. Allo stesso tempo è necessario che le ingenti risorse liberate di anno in anno dai pensionamenti siano indirizzate nella loro totalità ai fini del reclutamento e delle progressioni di carriera. Così come vanno rese disponibili le risorse per inquadrare gli attuali RTI ad esaurimento nei ruoli per cui hanno conseguito l’abilitazione.

Ruolo Unico della Docenza

In realtà è necessario superare la distinzione ormai anacronistica di status accademico, ruoli e prerogative tra PO e PA in favore di un’unica figura di docente di ruolo dopo la tenure track del RTD unico, una figura da articolare su più fasce stipendiali.

Conclusione

La riforma del pre-ruolo e l’annesso piano di reclutamento e stabilizzazioni proposte si integrano a vicenda. Solo la loro implementazione congiunta è in grado di garantire la “messa in sicurezza” del sistema universitario, premessa indispensabile perché l’università torni a crescere e ad assumere il ruolo di motore dello sviluppo sociale, culturale ed economico del Paese. Ad oggi migliaia di ricercatori sono costretti a lasciare l’Università dopo anni di lavoro, con una dispersione di risorse e potenziale di sviluppo umane che erode nelle fondamenta la capacità di innovazione dell’intero Paese. Il piano di reclutamento qui avanzato restituisce una prospettiva alle migliaia di ricercatori precari, riportando in tempi brevi la numerosità del personale strutturato ai livelli del 2008. Questo consentirebbe un deciso miglioramento dell’offerta didattica e di ricerca del sistema universitario italiano.

 

Questa piattaforma è da intendersi come una bozza non chiusa né conclusa. Al contrario vuole essere uno strumento a disposizione di assemblee da costruire nelle Università e nei luoghi della ricerca. Le proposte qui avanzate sono quindi aperte a tutti coloro che vorranno contribuire, anche criticamente, nell’ottica di costruzione di una piattaforma la più possibile ampia, inclusiva e condivisa.