Concorsi universitari, in arrivo una riforma che preoccupa: via l’abilitazione nazionale e più potere alle commissioni

Il governo propone di abolire l’Abilitazione nazionale, mantenere le distorsioni quantitative sulla valutazione dei prodotti di ricerca e aumentare le discrezionalità delle commissioni locali.

Il governo ha presentato un nuovo disegno di legge che, nonostante i toni rassicuranti, rischia di stravolgere il sistema universitario italiano. La proposta, che si presenta come un intervento di “modernizzazione”, in realtà elimina l’Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN), rafforza i meccanismi quantitativi nella valutazione dei ricercatori e conferisce maggiore discrezionalità alle commissioni locali.

Una situazione critica per l’università italiana

Il quadro di partenza è già problematico: poche risorse, troppi studenti e tanti precari. L’università pubblica italiana è più piccola rispetto a quelle europee, con un rapporto docenti/studenti tra i più sfavorevoli (1 docente ogni 20 studenti), e finanziamenti inferiori all’1% del PIL, contro l’1,5% della media UE. A questo si aggiungono:

  • Fine dei fondi PNRR
  • Rischio di espulsione per oltre 40.000 precari
  • Tagli e inflazione che erodono il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO)

In risposta a questa emergenza, il governo Meloni e la Ministra Bernini hanno prima approvato il decreto 1835, che favorisce gli atenei privati e telematici, poi presentato il DdL 1240 che moltiplica i contratti precari e, ora, un nuovo disegno di legge sui concorsi.

Cosa prevede la nuova proposta?

Il disegno di legge si compone di quattro articoli e mira a riformare la Legge 240/2010 (nota come “Legge Gelmini”), con modifiche sostanziali all’art. 16 (ASN), 18 (chiamate) e 24 (tenure track). Le principali novità:

  • Abolizione dell’Abilitazione Scientifica Nazionale, sostituita da requisiti “oggettivi” fissati dall’ANVUR
  • Valutazioni basate su soglie quantitative (numero e frequenza delle pubblicazioni, partecipazione a progetti, incarichi, premi, ecc.)
  • Verifica tramite una piattaforma digitale ministeriale, che implementerà un sistema di “semafori” per accedere ai concorsi
  • Concorsi locali e fortemente discrezionali, con prove orali e didattiche reintrodotte anche per chi già insegna

In sostanza, più potere alle commissioni e meno garanzie per i candidati.

Un ritorno al passato con una veste nuova

Sebbene il governo presenti la riforma come un allineamento agli “standard internazionali”, in realtà si va verso un sistema meno trasparente e più soggetto a influenze locali. Alcune novità apparentemente positive, come:

  • Aumento dal 20% al 25% dei docenti assunti da altri atenei
  • Nuove linee guida per valutare la produttività dei docenti
  • Canali di mobilità interuniversitaria più flessibili

appaiono più simboliche che strutturali, specie in un contesto di risorse ridotte e forte instabilità.

Una riforma che peggiora la condizione dei precari

La vera posta in gioco riguarda i precari dell’università: il nuovo sistema sembra volerli mantenere in condizione di incertezza, con meno tutele e prospettive di carriera affidate alla discrezionalità delle singole università. Il rischio è di accentuare le disuguaglianze e consolidare un’università gerarchica, elitaria e autoreferenziale.


Mobilitarsi per un’università pubblica e inclusiva

Secondo la FLC CGIL e numerose sigle del mondo accademico, questo disegno di legge rappresenta un pericoloso passo indietro. Serve una svolta strutturale, non un maquillage normativo. L’università italiana ha bisogno di risorse certe, regole trasparenti e diritti garantiti, non di meccanismi opachi e selezioni pilotabili.

Stanno spegnendo l’università, riaccendiamola con la mobilitazione: la FLC CGIL continuerà il suo impegno per  costruire collettivamente questa svolta.

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