Nonostante gli annunci ufficiali e una narrativa ottimistica da parte del governo, il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) per il 2025 continua a riflettere una situazione tutt’altro che rassicurante per l’università pubblica italiana. Se da un lato il fondo cresce formalmente fino a 9.368 milioni di euro, dall’altro emergono ancora le ombre dei tagli effettuati negli anni precedenti e delle risorse mancanti che, in realtà, rendono questo incremento solo apparente.
Un bilancio che non convince
Nel 2024 il FFO aveva subito una diminuzione sostanziale: 178 milioni in meno rispetto all’anno precedente e un ulteriore mancato stanziamento di 340 milioni di euro legati al Piano straordinario “Messa” del 2022. Il risultato? Una perdita complessiva di circa 518 milioni di euro. Gli effetti si sono visti subito: stop al reclutamento, tagli alla ricerca e riduzione dell’offerta formativa in numerosi atenei.
A peggiorare il quadro, nel 2025 si aggiungono altri 50 milioni sottratti al Piano straordinario, che sono stati dirottati per coprire aumenti stipendiali tramite la quota base del FFO. Un’operazione che ha tutto il sapore di una partita di giro, piuttosto che di un reale investimento nel sistema universitario.
Un incremento che nasconde un arretramento
Sebbene il FFO 2025 segni un aumento di 337 milioni di euro (+3,73% rispetto al 2024), il valore reale delle risorse rimane ben al di sotto delle necessità. La legge di stabilità del 2022, infatti, fissava a 9,5 miliardi la soglia per quest’anno, cifra non raggiunta nemmeno con l’incremento attuale.
Inoltre, l’aumento dei costi fissi per il personale, solo per gli adeguamenti del triennio 2019/21, comporta una spesa aggiuntiva di circa 300 milioni di euro annui, senza considerare il rinnovo 2022/24 ancora in fase di stallo. Questo significa che, nel biennio 2024-2025, le università dovranno affrontare un minor finanziamento di oltre 550 milioni, a fronte di oltre 600 milioni di nuovi oneri.
Università costrette a tagliare oltre 1 miliardo
Il risultato? Gli atenei pubblici hanno dovuto ridurre le spese di oltre 1 miliardo di euro, circa il 6% delle loro entrate, al netto dell’inflazione. Congelamenti del turnover, blocchi al reclutamento, compressione dell’organico e una precarizzazione crescente sono le conseguenze dirette di questa politica.
E mentre le università si trovano in difficoltà crescente, il governo ha introdotto strumenti normativi come il DDL 1240 e l’emendamento Occhiuto/Cattaneo, che aggravano la precarietà di migliaia di ricercatori e docenti.
Una quota base “gonfiata” solo sulla carta
Il Ministero ha comunicato che la quota base del FFO 2025 sarà pari a 4,681 miliardi di euro, con un incremento del 18,9% rispetto all’anno precedente. Tuttavia, questa cifra è frutto di un gioco contabile: per la prima volta, sono state inserite nella quota base risorse provenienti da piani straordinari ormai conclusi, come quelli Manfredi e Messa, e altri fondi una tantum.
Tolte queste voci, la vera quota base si ferma a 4,143 miliardi, con un aumento molto più contenuto: solo il 5,2% rispetto al 2024, e comunque inferiore ai livelli del 2023, anno in cui si erano registrati tagli pesanti.
Una falsa impressione di crescita
Guardando agli ultimi vent’anni, il FFO ha avuto un andamento altalenante. Dopo un crollo tra il 2010 e il 2015, c’è stato un timido recupero fino al 2021, seguito però da un nuovo declino, aggravato dall’inflazione. Anche nel 2025, il fondo resta inferiore del 5% rispetto al 2021, riportando il valore reale delle risorse a livelli simili a quelli dei primi anni Duemila.
Se oggi si volesse finanziare l’università pubblica con la stessa proporzione di spesa pubblica del 2000, il FFO dovrebbe attestarsi a oltre 12 miliardi di euro. Invece, ci fermiamo a 9,368 miliardi, con una quota base che copre solo il 44% del fondo totale.
Il problema strutturale non è stato risolto
La quota premiale torna nel 2025 a 2,5 miliardi (+4,2%), ma le sue modalità di distribuzione non cambiano: continua a favorire gli atenei già avvantaggiati, accentuando i divari. I fondi straordinari, invece di colmare queste disuguaglianze, sono stati assorbiti nella quota base, senza correggere i meccanismi sottostanti.
In questo scenario, il sistema universitario italiano rimane indietro rispetto agli standard europei, sia per numero di iscritti, che per rapporto studenti/docenti e per quota di laureati. Nonostante l’obiettivo fissato a Lisbona del 42%, l’Italia resta ferma al 30%, mentre la media europea si avvicina al 50%.